Televisione – Intervista a Vincenzo Salemme nella puntata di XXI Secolo.
Negli studi Rai dell’appuntamento televisivo XXI Secolo, quando il presente diventa futuro, trasmesso lunedì 15 gennaio sulla Prima Rete Nazionale, condotto dal giornalista e presentatore Francesco Giorgino, ha eseguito un’intervista al super ospite di puntata, Vincenzo Salemme: Gentile, istintivo, ironico, romantico, autentico e tra i più importanti e pirotecnici esponenti del cinema del teatro italiano nel corso della sua lunghissima carriera ha saputo interpretare le sfumature della vita con uno spirito tutto napoletano. Benvenuto al Maestro Vincenzo Salemme. Aprendo il tuo sito internet, Vincenzo, si legge la frase “Non si può amare per essere felici ma bisogna essere felici per poter amare. Quindi un Salemme filosofo? «Faccio spettacolo. Mi dicono spesso Maestro e mi fa tanto piacere. Se ci pensiamo bene, se si è infelice e si spera di raggiungere la felicità attraverso un’altra persona, non è così, perché non è possibile. La felicità sta dentro di noi, prima occorre trovare questa e, poi, si è in grado di amare e magari regalare ulteriori felicità a qualcun altro».
Per passare dalle cose alte alle cose un po’ più basse, in uno sketch in cui parlavi di amore, tu hai paragonato il maschio al cane e la femmina al gatto. «Ho avuto sia cani che gatti. Amo entrambe le creature. Però il cane dipende totalmente da noi. Avevo un cane, che si chiamava Rocco ed aveva un bisogno di amare talmente forte, che ti fa sentire in colpa se non lo ami. Il gatto invece, ti lascia la libertà di scegliere di amarlo. Ti fa un piacere stare in casa propria. Prendevo sempre dei randagi, li portavo a casa e dopo un attimo si posizionavano sul divano».
È vero che da bambino avevi molti tic. Dopo cinque metri, ti giravi? «Mi dovevo girare e poi, dovevo continuare a camminare. Siccome mi vergognavo terribilmente, mettevo mia mamma dalla facciata del balcone e facevo finta di salutarla, eseguivo altri cinque passi e, passavo così tutto il tempo».
Riguardo il movimento che hai spesso effettuato all’interno di un tuo teatro, dell’indiano, si tratta di uno snodato, no? «Ad un domestico srilankese gli chiedevo, vuoi il caffè? E lui faceva, no? E poi, sì. Ed aggiungevo, perché fai il gesto di no con la testa? Rispondeva a sua volta, dicendo sì con la testa. E quindi non hanno né il sì, né il no; dunque una via di mezzo, non prendevano mai una posizione». Stiamo celebrando i cento anni della radio, i settanta della televisione e per Vincenzo Salemme abbiamo estratto questo diamante dalle inesauribili delle Teche Rai: si tratta di Pino Daniele, che canta “Napule è”. Vincenzo per te, Napule è? «Una volta ho scritto una cosa, che recita così: “Napoli è Grecia, è Spagna, è Francia, è unacrofonia armoniosa di suoni e voci di paura. È nobiltà barbona di ricchezza polverosa, astuzia senza luce. Non la capisco Napoli. La perdo tutti i giorni, poi la ritrovo in sogno, che ride, calma, immersa nel suo mare, che frena i colpi di chi le spara al cuore». Ma che bravo che sei. Bellissime parole, davvero molto significative. Hai sintetizzato in pochissime parole la complessità ed il fascino di questa città. A proposito di Napoli e di grandi napoletani, è stato proiettato in studio un altro videoclip riguardante Vincenzo Salemme e Sophia Loren. Eri proprio emozionato? «Sì, certo. Non potevo crederci. Il fatto che Sophia Loren era venuta in una mia trasmissione, mi sembrava che si trattava proprio di un miracolo». Che cosa rappresenta per te, Sophia Loren? «Sophia Loren rappresenta la vita. Al di là del fatto, che è bella, che è stata e lo è una bravissima artista; è proprio la vita. Perché lei porta nello sguardo un messaggio vitale, c’ha sempre la speranza di una persona che non solo è arrivata ma si è portata dietro tutto un popolo. E rappresenta non solo i Campi Flegrei dov’è nata, ma proprio l’Italia nel mondo. Per me è proprio il più bel messaggio italiano, nel mondo. È bellissimo».
Nel 1977 ti trasferisci dalla Campania a Roma e, cominci a frequentare la compagnia di Eduardo De Filippo. Ecco, anche qui, cosa rappresenta per te, Eduardo De Filippo?«La prima cosa che ho visto al teatro, quando stavo al liceo è stata una commedia di Eduardo De Filippo, “Natale in casa Cupiello”. Uscii da scuola, stavo al Liceo Umberto di Napoli, insieme a due amici prendemmo il treno, venimmo a Roma e andammo a vedere Eduardo, all’Eliseo, che faceva proprio “Natale in casa Cupiello”. Per me, come attore rappresentava il Natale. Perché a Natale lo vedevamo in tv, perché era un appuntamento, poi perché cominciavo anche il fatto di fare l’attore, per cui lui era un mito anche come attore. Eduardo De Filippo ha cambiato la faccia del teatro napoletano e di Napoli. Lui ha dato una dignità, non che prima non ce l’avesse; ma ha fatto una svolta: è passato dal melodramma diciamo così, al teatro borghese. Questo passaggio l’ha fatto Eduardo, pur conservando un’anima popolare. L’ha trasformato, essendo dunque internazionale». È stata mandata in onda un’altra clip, inerente alla sua arte teatrale. Da novembre, stai portando in scena proprio “Natale in casa Cupiello”. So, che è un successo straordinario «Sì, perché è una commedia bellissima. Ho fatto proprio la commedia, così com’è. Non ho pensato ad Eduardo o, perché lo conosco a memoria. Ho pensato al testo. Infatti si tratta di un testo magnifico, da recitare. Il miracolo è che Eduardo lo faceva insieme a Luca, il figlio, per cui è emozionate perché anche Luca non c’è più essendo stato molto amici e, abbiamo lavorato per tanti anni insieme». Questo spettacolo ha registrato dal punto di vista della vendita dei biglietti, dei risultati straordinari. Non è soltanto merito di Eduardo De Filippo? Il merito è proprio il modo in cui riesci ad interpretarlo? «Sì, certo. Tutti mi dicevano, non hai paura di fare “Natale in casa Cupiello”? No. Perché ho preso il testo, l’ho riletto. Si tratta di un tale capolavoro, che si recita sulle spalle di un gigante. Quindi paradossalmente, è più semplice, che più insidioso, proprio perché per come detto è più semplice; ma il merito è in gran parte di quel meraviglioso capolavoro. Perché è eterno. Vengono a vederlo anche i bambini».
Qualunque cosa tu abbia fatto ha sempre registrato un grande successo di pubblico. Ti sei posto questa domanda, che cosa fa piacere al pubblico. Come riesci a costruire questo feeling con un pubblico, che è un pubblico teatrale, un pubblico televisivo, un pubblico del cinema, quindi un pubblico molto, molto vasto? «Il pubblico teatrale è particolare, perché poi decide di uscire di casa, di spendere considerando anche il fatto, che il teatro è costoso, con una media prezzi dei biglietti, sui trentacinque, quaranta, quarantacinque euro e, per una famiglia sono cifre abbastanza importanti. Per cui già quello rende il pubblico speciale. Ovvero gli devi qualcosa. Devo tutto al pubblico. L’ho costruito piano piano nel tempo, si è fidato. Ho fatto tanto. Lavoro per conto mio su commedie scritte proprio da me, sono quasi trentacinque anni. Prima avevo fatto esperienza con Edoardo e Luca De Filippo, per cui per me il pubblico è il punto di riferimento. Lavoro per loro. E quindi, sera per sera, dove lo spettacolo zoppica, lo correggo. Laddove va bene, lo lascio così com’è. Lo spettacolo si fa insieme al pubblico».
Nel 2020, Vincenzo Salemme ha pubblicato un romanzo “Napoletano? E famme ‘na pizza”. Ironica per sfuggire ai luoghi comuni partenopei. La trascrizione per il teatro del romanzo, è diventato una tournée teatrale di successo, ma anche una serata evento sulla Rai, che ha offerto ai telespettatori di Rai Uno, la possibilità di godersi proprio il teatro in diretta. È stato fatto vedere un passaggio. Dalle pagine del libro alle tavole del teatro, al palcoscenico televisivo; insomma mettere insieme tre linguaggi diversi? «Sì, trattandosi di uno spettacolo molto teatrale. L’ho scritto il libro pensando che potessi trarne dei monologhi teatrali, parlando proprio di Napoli e difatti la napoletanità è complicatissima. C’ha una serie di regole, se sei napoletano lo devi dimostrare ai napoletani stessi. Deve piacerti il caffè, la mozzarella, la piazza, bisogna saper cantare, oltre ad essere sempre allegro; il napoletano è una razza a parte, ha una sua gestualità».
A proposito di pizza, recentemente, un maestro pizzaiolo tra i più apprezzati a livello mondiale, ha sdoganato la pizza all’ananas e la pizza al ketchup. Cosa vorresti, dirci? «Non ci posso pensare, a questo connubio, per la pizza». Riguardo dei luoghi comuni sui napoletani, tu sai fare il ragù quello che si mangia la domenica? «Certo. Il ragù si fa con il battuto di carota, basilico e cipolla, con un pò d’aglio, si mette a soffriggere poi si aggiunge un pò di vino facendolo sfumare; poi si mette la carne e la si fa rosolare; e poi la si deve far brasare dentro il vino. Ma tutto questo con un’ora la prima ed un’altra ora, la seconda parte. Si comincia a mettere il concentrato, facendo il brodo di carne, per poi pippiare. Si parla del tutto, di cinque, sei ore, deve diventare color mogano scuro».
Il gatto nero, lo specchio rotto, il viola in scena, come la mettiamo? «Ho avuto un gatto nero e mi ha portato solo fortuna. Non credo più neanche al viola. Non si è un buon napoletano, se non si è superstiziosi».
Dopo la scena di un film del 1962, che si tratta di un pezzo di straordinaria bravura comica: “Totò diabolicus” diretto da Steno con un Principe De Curtis straordinario «Questa scena è un tesoro: una festa». Una delle cose che ti emoziona di più è l’intelligenza. Che cosa significa, secondo te, l’intelligenza? «È una cosa molto completa. Ovvero è un insieme di sentimento, di emozione, di garbo, di elasticità, di gentilezza. L’intelligenza credo, che comprende tutto questo. Quando si hanno manifestazioni negative, in quel momento lì, l’intelligenza viene meno. Ovvero credo, che l’intelligenza rappresenti davvero la mano di Dio».
Poi talvolta occorre sempre far riferimento all’etimologia delle parole. Intelligenza, viene dal latino “intelligere” e, vuol dire conoscere. Quindi avere anche la curiosità intellettuale di conoscere. Un’ultima domanda Vincenzo, far sorridere è anche un modo soprattutto di questi tempi per far pensare. Serve anche secondo te, per garantire un pò di ottimismo, nel futuro? «Credo che far ridere non deve significare come dicono spesso, che si tratta di una cosa che fa distrarre dai problemi. Far ridere serve a rinforzarti, a darti più forza per affrontare i problemi, a non avere; a vincere la paura. A questo serve davvero ridere. Ridere ti aiuta a pensare, ad affrontare meglio il futuro». Grazie a Vincenzo Salemme per essere stato con noi. Grazie per quello, che ci hai regalato, questa sera! Grazie, Grazie a voi! Vi lasciamo con una frase del filosofo Ludwig Wittgenstein: “Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto”.